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martedì 29 giugno 2010

Rifare l'uomo?

« Quali che siano le circostanze della mia morte, io morirò con la incrollabile fede nel futuro comunista. Questa fede nell'uomo e nel suo futuro mi dà, persino ora, una tale forza di resistenza che nessuna religione potrebbe mai darmi... Posso vedere la verde striscia di erba oltre la finestra ed il cielo limpido azzurro oltre il muro, e la luce del sole dappertutto. La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla di ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore. »

(Tratto dal testamento di Trotsky, scritto poco prima di essere ucciso)

Povero Trotsky, anche lui vittima del sogno di rifare l'uomo... dal difuori!

domenica 27 giugno 2010

anti...

La dittatura anticattolica cresce, e presto avrà i suoi nuovi martiri.
Cattolici, vigilate e fate attenzione!!! Difendiamo la Memoria, la Cultura e la Storia contro l'oblio, l'odio e le massonerie politiche e giudiziarie!!

venerdì 25 giugno 2010

Non ancora...

Non ancora vecchio, credo, di poter già avanzare delle linie di massima per un futuro (lontano!) profilo di sintesi della mia vita, di quello che ho imparato (molto) e di quello che ho capito (poco).

Ho capito che da noi tutto è basato su un sistema ebdomadario!

Tutto quello che accade: la morte di un giusto, la vicenda orribile di un infame, la violenza, una vincita milionaria, un aero che cade, un terremoto, una banca che fallisce, un politico che starnutisce,una indignazione popolare, una gallina che si rifà il seno, un cristo che nasce…, tutto ha scansione settimanale, allorquando gli italiani vanno allo stadio e… tutto si dimentica, e tutto finisce.

Ogni benedetta settimana!

giovedì 24 giugno 2010

IL TEMPO DELLA PAURA (di Luca Pesenti)

Siamo sempre più conficcati nel tempo della paura. Sottile, sprezzante, spesso o quasi sempre irrazionale. Siamo al tramonto di ogni sicurezza, alla realizzazione sociale del nichilismo, all’avanzata del dubbio sistematico.

Tutto è cominciato con la paura della vecchiaia, delle rughe, dei chili, del dolore, dei difetti, degli handicap. Date le premesse non proprio incoraggianti, non potevamo che precipitare nella “società delle paure globali”. Non passa quasi giorno senza dover fare i conti con un nuovo, sottile terrore. Basta sfogliare i giornali, megafoni dell’irrazionalità, grancasse della paura.

C’è il pedofilo della porta accanto, travestito (così si dice) da maestra elementare, da educatore, da genitore senza macchia. Basta una fotografia, una carezza, uno sguardo ed è subito fobia. C’è il dottor Mengele del laboratorio accanto, che può finalmente produrre (così si dice) il mondo nuovo creato dalla Tecnica, in cui si potrà nascere belli, perfetti e preferibilmente senza genitori, per poi crescere con due madri (o due padri), vivendo sempre più a lungo, magari vincendo anche la morte. Un incubo a occhi aperti.

Ma soprattutto, ci sono le pandemie: tante, maledette e (così si dice) omicide. Solo nel Terzo millennio se ne può fare un campionario. L’anno 2001 fu quello della “mucca pazza”. Ricordate le parole d’ordine? Niente più ossobuco, niente fiorentina, il pericolo viene dalla carne, il futuro è solo dei vegetariani. Alla fine le vittime vere furono le povere mucche, ammazzate a migliaia a partire da semplici dubbi.

Nel 2002 ecco la SARS, la polmonite devastante che avrebbe dovuto (così si diceva) mietere vittime a tutto spiano. Si fermò nell’estremo Oriente, non se ne parla più. Nel 2003 è stata invece la volta dell’influenza aviaria: anch’essa nata nel sud est asiatico, anch’essa annunciata come la nuova peste, anch’essa ormai dimenticata.

Oggi è la volta della suina. Si contano le (poche) vittime, una ad una, giorno dopo giorno. Inutile ricordare che ogni anno l’influenza uccide tra i cosiddetti “soggetti a rischio”. Non importa che a farne le spese siano quasi sempre malati cronici, poveracci indeboliti da qualche altro male e colpiti a tradimento dalla più banale delle malattie di stagione. Quel che conta è contare le vittime, far pensare al peggio, spaventare.

È una grande congiura. Una mezza parola di troppo dell’esperto di turno, un caso eccezionale che smentisca la regola, un inconfessabile interesse da sostenere: tutto fa brodo per un bel titolo ad effetto, una copertina urlata. È una macchina che ormai funziona da tempo, ben oliata, perfettamente registrata. Anche perché è sempre all’opera una semplicissima legge: per far superare una paura è sufficiente scatenarne una più grande. E così il Potere può utilizzare questo terreno coltivato a paura come un potentissimo meccanismo di controllo sociale.

Tutto questo accade in superficie. Ma è sotto la cresta dell’onda che bisogna guardare, per capire le molte cause della paura globale. Spinoza sosteneva che la capacità di utilizzare correttamente la ragione è il risultato della sicurezza. Se manca questa, trionfa l’irrazionalità.

Allora potremmo spiegare tutto così: passata l’epoca dello “stato del benessere”, delle “garanzie” e della “sicurezza sociale garantita”, nella società del rischio (Beck) e dell’incertezza (Bauman) non siamo più sicuri nemmeno sui fondamentali (vita, famiglia, lavoro) e finiamo, inesorabilmente, per aver paura di tutto. Paura dell’altro, innanzitutto: per questo cerchiamo di “immunizzarci” dal rischio della relazione, e dunque diventiamo facilmente preda delle fobie più irrazionali.

Ma forse ci basta citare un film per andare dritti al cuore delle nostre paure. L’aforisma lo prendiamo da “Le ali della libertà”, di Frank Darabont: “La paura ti rende prigioniero, la speranza può renderti libero”. I barbari, le crisi economiche, le carestie, le incertezze del vivere ci sono sempre state. Ma oggi è peggio, perché dopo molti secoli, manca proprio la speranza.

Nella cultura postmoderna c’è tutto fuorché l’idea che si possa incontrare qualcosa, o qualcuno, che ti permetta di non avere più paura, e che ti faccia capire che in fondo il rischio, l’incertezza, il limite, la malattia, addirittura la morte sono parti necessarie di un destino buono. La Chiesa è lì a ricordarcelo, a ripeterci come fece per 368 volte Papa Woytila nel suo lungo pontificato: “Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!”. Eppure, in quest’epoca di passioni tristi e di crocifissi tirati giù dai muri, basta un’influenza per dimenticare duemila anni di speranza.

martedì 22 giugno 2010

IL PUBBLICO PIETOSO (RIPENSANDOCI SUL TRENO DA NAPOLI A ROMA)

Come prete, e perché tale, incontro molte persone e tanta gente. Da tali incontri, che cerco di vivere come in un teatro, fin quanto non entriamo nelle cose Altre del cuore, qualcuno pensa che ne dovrei uscire compiaciuto e/o carico di domande. Invece no! Spesso resto volentieri un attimo con me stesso, e lí ricordo il senso di tutto quanto sono e faccio...
In realtà, poi, trovo in me i segni di una distanza - che non sia sufficienza- di un lontananza, di una differenza che, talvolta, arriva a farmi sentire avversario... all'opposto di attese e pensieri di taluni che incontro.
Ora come prete a me è chiesto di nascondere, dissimulare, tutto ciò... Cosa penserebbe la gente di questi miei sentimenti? Credo che non perdonerebbe.
Ed allora, nell'ambito del politicamente corretto, eccoci ad ascoltare e vedere spettacoli assurdi, come le due brave donne che in Sacrestia aggrediscono il prete di turno ché la loro casa non é stata benedetta. Che hanno ascoltato la risposta del prete? No! Ma neppure ha avuto spazio per dire qualcosa. Anzi, bisognava vedere ed ascoltare: era come una commedia dell'arte!
" Noi siamo cattolici, ma ditelo se non ci volete, che cambiamo chiesa (quella accanto ha i saldi!). Noi ascoltiamo molto più di quanto diciamo..."
E di fatto, non hanno ascoltato nulla, ché nulla hanno permesso replicare!
" che, non su da' più la mano?"
Veramente non volevo imporre il mio saluto, visto che volevate parlare con un prete; vi ho salutato con un buon giorno"
"Sí, va bene. Ora non si saluta più!"
- ma scusate, siete venute a parlarmi o a lamentarvi?
E qui giù parole, discendenze, appartenenze, glorie, casati...

Ecco. Queste sono le persone che io annovero tra i "fratelli clienti", che si commuovono per un cane maltrattato, ma non si fanno scrupolo di essere ruvidi con gli altri; sono clienti che adotterebbero un cane abbandonato, ma non aiutano nessuno, a meno che questo non porti loro fama e visibilità.

I miei fratelli hanno un Dio crocifisso nei loro cuori, non appeso al collo!
I miei clienti hanno come Dio se stessi... Ed io sono loro avverso, distante, estraneo.

giovedì 10 giugno 2010

ALLA FINE VIENE L'INIZIO!

In queste sere, “frate asino” mi ha svegliato varie volte e ho dovuto un po’ vegliare qualche malanno… passeggero. In queste veglie è normale per me pregare Maria, amica del cuore, amica di sempre. E mi ritrovo a pregare in modo particolare per la stanchezza dei buoni…, ché il loro dolore, la loro spossatezza, arriva alle orecchie del mio servizio di parroco. Magari in alcuni la stanchezza è dettata anche dal lungo servizio che in questi mesi ha svolto ed offerto.
Al termine di quest’anno sociale 2009/10, non voglio volgere lo sguardo indietro, a quanto fatto e a quello che potevamo fare… meglio!

Di solito, in questo mese di giugno, le parrocchie vanno a terminare le loro attività, e i campi scuola o i campi scout segnano la chiusura delle attività, in vista della ripresa settembrina.
Confesso che avrei voluto, al termine della scuola, per i giovanissimi un’opportunità inedita, ma pare che, per ora, non si riesca…, quest’anno; ma l’anno prossimo –Deo adiuvante- dovremo fare, dovremo essere più vicini ai giovanissimi; questi restano la parte più fragile e meno seguita della nostra comunità. Dai giovani tutti abbiamo attese, ma è difficile che ci attardiamo con loro e per loro…, magari solo per fargli capire, vedere, che li si vuole bene!! Il servizio Scout e l’animazione e la formazione di Azione Cattolica hanno dato vita a tanta presenza, a tanta fraternità!

Come dicevo all’inizio, non voglio guardare al passato, piuttosto muovermi più il là, dove è il futuro, cercare la soglia della speranza ed abitare la fiducia.

Molte cose abbiamo ancora da fare e da essere! Da dove cominciamo?
Io punto sulla scelta di essere ancora, e meglio –se sia possibile-, vicino; con meno pretese, meno durezza e più gioia, più fraternità, con coloro con i quali sono a spezzare il medesimo pane della fede, della speranza, della lode.
Poi, dobbiamo metterci anche a fare, dobbiamo continuare le nostre attività.
In primis, la Catechesi, il servizio cioè della fede trasmessa e testimoniata, con la Parola, la Liturgia, la Tradizione, il Magistero.
Poi, la Carità, cioè l’attenzione a quanti tra noi richiedono una mano, di un ascolto, di un vestito, di sostegno.
Non potrà mancare l’animazione sociale, attraverso la cultura, i mezzi di comunicazione, la scelta di servizio sociale e politico, per il territorio e l’ambiante, perché ci sia una vera ecologia della persona per e nella natura.

Un ringraziamento a Dio, e ai tanti che danno una mano, per il servizio delle docce, per i Centro Ascolto, la Caritas, il Consultorio medico, ecc.: quanto ancora, in futuro, potremo ancora fare!

Ma cosa faremo domani? Non lo so. Domani la Provvidenza ci precederà, e –domani- faremo il bene di domani! Oggi ci tocca avere in cuore tanta gratitudine per il tanto bene che si è fatto: i catechisti hanno accompagnato ragazzi e giovanissimi all’Eucarestia e alla Cresima. Alcune famiglie hanno dato corpo al gruppo delle Famiglie in Coro; molti giovani universitari hanno offerto tanto del loro tempo al camminino Scout, non pochi, il sabato, erano a servire poveri e ammalati; questo e tanto altro si è fatto, non cercando mai la spettacolarizzazione o le luci della ribalta, ma sotto gli occhi di Dio, per amore suo, con la forza della sua chiamata a servire lui negli altri.
Molti abbiamo sperimentato che servire Dio è un onore!

L’anno prossimo la Provvidenza già mostra alla nostra comunità parrocchiale alcune linee di orientamento:
• Cercheremo di mettere su un oratorio… più stabile. Chi si sente disponibile si faccia già avanti!
• Metteremo su una ludoteca per bambini dai sei mesi ai cinque anni.
• Vorremmo potenziare il sistema di ausilio per i poveri, aumentando le riserve di cibo da distribuire loro.
• Convocare altri al servizio.
• Creare un Consiglio di Comunità Pastorale.
• Potenziale il consultorio medico per i poveri.
• Aumentare la raccolta dei tappi per la Tanzania.
• Aumentare la raccolta dei cellulari rotti, per l’operazione Magis pro Africa.

Queste sono le linee del fatto e del fare, frutto di quanto Dio mettere nei cuori e nelle intelligenze della nostra comunità cattolica di San Gaetano, invocato “Padre di Provvidenza”. Andiamo a chiudere le attività dell’anno nella serenità che il bene è tanto, il bene è forte, e Dio è sempre all’opera, e sempre suscita cuori ed intelligenze perché cresca e si affermi la fraternità universale. In tale opera siamo tutti chiamati…, anche ora che tutto va a fermarsi, a riposarsi…, perché alla fine si va sempre a ricominciare!

Mariano

sabato 5 giugno 2010

Il male di Giobbe giunge sino al '900 di Philippe Nemo

Se il Libro di Giobbe figura nella Bibbia, è perché mette in scena un dialogo memorabile con Dio che costituisce un ulteriore avanzamento della Rivelazione. Esso affina e precisa l’idea di Dio, la de-paganizza, la libera della concezione meccanica del Dio-Giustiziere. Rivela l’"umanità" di Dio e delinea in anticipo la figura di Cristo. Dio vi si scopre infatti come un essere libero e che ci vuole liberi, quindi "debole" in questo senso e desideroso di assumere questa debolezza. Permette la prova del male estremo, per farci scoprire la legge dell’amore e per persuaderci del nostro destino sovrannaturale. Ho già studiato in altra sede questa dimensione teologica del libro . Ora, vorrei analizzarne un altro aspetto, cioè che la prova salutare inviata a Giobbe è una malattia.

Giobbe è «colpito da una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo» (2, 7). È senza dubbio una lebbra, poiché è costretto ad abbandonare la città, a recarsi in un posto isolato, «nella cenere», dove si gratta con un coccio. La malattia lo consuma, decompone il suo corpo sotto i suoi occhi. Non è previsto alcun rimedio umano a questo male. La malattia è ritenuta incurabile. Essa è l’equivalente dei nostri cancro, Aids, sclerosi a placche, ecc., in fase terminale. La morte appare ineluttabile. L’epilogo ci dice che la situazione di Giobbe verrà ripristinata, che avrà nuovi figli, nuove greggi, e che vivrà ancora centoquarant’anni, il che suppone che egli avrà recuperato la salute (42, 10-17). Ma si tratta di resti di un apologo orientale edificante estraneo al proposito principale. Nei dialoghi che costituiscono il corpo del libro, non si prende in considerazione la guarigione, ma, ed è ben diverso, una redenzione («So che il mio vendicatore è vivo; […] [e che] vedrò Dio», 19, 25-26). Giobbe sarà forse resuscitato; ma, sulla terra, non sarà guarito, e lo sa.

Sappiamo che la malattia è spesso all’origine della fede o è una causa di approfondimento decisivo della fede, perfino di vocazioni religiose o profetiche. Anche la vecchiaia può essere occasione di un ritorno a una fede dimenticata, quando le scadenze fatali si avvicinano. L’ateismo moderno prende questi fatti a pretesto, per sostenere che la fede è solo un’illusione prodotta dalla debolezza umana. Ora, poiché molti uomini non sono deboli e attraversano la vita senza subire prove maggiori, il passaggio attraverso la fede non avrebbe nulla di necessario e la problematica religiosa potrebbe e dovrebbe essere esclusa dall’agenda intellettuale dell’umanità. Questa argomentazione dell’ateismo si è nutrita in modo singolare, negli ultimi due secoli, dei successi spettacolari della medicina, che hanno fatto credere a molti che fossero vicini i tempi in cui, con la guarigione quasi di tutti i mali, Dio sarebbe sparito definitivamente dall’orizzonte.

Ora, il Libro di Giobbe rifiuta da subito questa idea. Esso ci obbliga a pensare che sia la vita "normale" a essere un’illusione, un divertissement nel senso di Pascal, e che la malattia, ricoprendo il ruolo di rivelatore, abbia un insostituibile valore di verità. Infatti, dall’analisi della sua malattia e dai fallimenti delle tecniche umane per prevenirla o guarirla, Giobbe trae la convinzione che la malattia non è un caso, ma, in un certo senso, la norma segreta della vita, l’elemento nel quale vive in permanenza il mondo, e che Dio stesso, lungi dall’aver la serenità che l’idolatria gli attribuisce, non ne è affatto esente.

Quel che emerge dalle straordinarie descrizioni dei capitoli 12, 21 o 24 è che il mondo è malato. Sulla Terra, nulla funziona. Invece di esistere un ordine, una Legge turbati soltanto a titolo eccezionale da qualche peccatore smarrito che basterebbe richiamare all’ordine, il mondo va, in sostanza, di traverso. I cattivi prosperano e primeggiano, i giusti sono indigenti, nudi, sfruttati, i bambini innocenti muoiono senza motivo, i paesi sono governati da folli. Il discorso rassicurante degli amici è quindi menzognero, come tutta la teodicea. Questo può essere trasposto in epoca moderna, in cui il discorso della scienza e della tecnica ha sostituito la " tecnica religiosa" con tre amici: neppure la scienza spiega tutto, la tecnica medica non guarisce tutto, il suo scacco è tanto più chiaro che, siccome guarisce di fatto molte malattie, la sua impotenza a guarirne alcune è più evidente e fatale.

Ma, d’altra parte, anche Dio non sta bene ! Giobbe ne ha l’intuizione intima. Comprende che Dio ha creato l’uomo per amore, ma l’amore è ferita e malattia, come viene detto nel Cantico dei Cantici. E quindi se si prende sul serio l’idea che Dio crei per amore, occorre concludere che Dio è ferito e malato. Poiché non vuole essere amato per forza, dal momento che l’amore ha senso solo nella libertà reciproca, Dio ha bisogno che la sua creatura sia libera ed egli la crea tale. La malattia di Giobbe avrà avuto come frutto questa visione mistica originale e grandiosa che sarà sostituita e sviluppata da tutta la tradizione cristiana. Anche san Paolo porrà come tesi che la creazione è sostanzialmente imperfetta: «Tutta la creazione geme fino a oggi nelle doglie del parto» (Rm 8, 22-23). Sant’Agostino dirà che l’uomo non può raggiungere la serenità, che è un «cuore privo di quiete» (De civ. Dei, XIX, 26), e che sarà così fino a quando Dio e l’uomo non avranno combattuto insieme il male fino alla vittoria finale e fatto trionfare definitivamente l’amore.

Questa verità avrebbe potuto essere raggiunta dalla semplice riflessione astratta ? Certamente no. L’alterazione drammatica della personalità antropologica, sociale o psicologica di Giobbe ha avuto come effetto di lasciar sussistere in lui solo il suo animo, cioè l’unica istanza suscettibile di decisione morale e di speranza escatologica. La malattia ha fatto passare Giobbe in una specie di fuoco che ha bruciato in lui tutto ciò che non era essenziale.